Flow – I materiali
La sigla del laboratorio, realizzata dei docenti So Beast e Menny
Il riassunto della prima lezione, per entrare nei temi del laboratorio
Sono le 23:58 del 31 dicembre 2020 e sono sul mio letto, sdraiato, da solo. Con la mano sinistra, i polpastrelli ancora appiccicosi per via del fumo gremato poco fa, reggo una birra da 66 del discount, calda al punto giusto da renderla ancora più sbagliata. Nella destra invece, brandisco un accendino dai colori della bandiera giamaicana che raffigura una foglia di ganja. Che poi sto fumo viene sicuro dal marocco, ma io mi sento comunque Bob Marley. Anche se il sentimento di pace e amore che per un attimo ha accompagnato questa discutibile canna solitaria, viene presto preso a sberle dai botti accesi dalle persone che hanno l’orologio qualche secondo avanti. O siamo noi ad averlo indietro?
*sospiro* non importa
Fisso il soffitto nosiosamente bianco sopra di me, e realizzo il pesiero amaro che in questo istante, sarebbe sicuramente più piacevole essere lui. Lui è un soffitto, il suo scopo è quello di riparare le persone che gli stanno sotto, ed è proprio quello che sta facendo. Perchè dovrebbe essere turbato da qualcosa? Certo, l’Italia è una zona sismica, ma lui, avendo già sopportato diverse scosse, alle volte anche parecchio violente, sa di essere un soffitto di tutto rispetto. E io invece sono qua, un istante prima del momento che dovrebbe rappresentare un nuovo inizio per tutto il mondo, sdraiato su delle disordinate lenzuola bagnate da qualche goccia dell’ormai estinta condensa che abitava la mia bottiglia di Sten Hauser.
Faccio un sorso così aspro da descrive il momento.
Per carità, so benissimo che il significato di questo giorno è qualcosa di artificiale. Voglio dire, chi è stato il bastando pretenzioso che ha deciso, a nome di tutta l’umanita, che l’anno finisse a fine Dicembre? Molto probabilmente, se non esistesse questa convenzione, questo sarebbe un giorno uguale a tutti gli altri, e la cosa non sarebbe un problema. Ma questo non basta a togliermi la pesante sensazione di essere nel posto sbagliato. E il pensiero che invece di ‘sti tempi, rimanere a casa da solo sia la cosa più moralmente e oggettivamente giusta da fare, mi fa incazzare ancora di più. A quest’ora, gli anni scorsi, ero con i miei amici a divertirmi per i portici di Bologna, con abbastana alcool e THC in corpo da renderci esattamente noi stessi. Alcuni dei miei ricordi più belli e memorabili, si sono creati esattamente un anno fa. Ma ora, che sono le 23:59 del 31 dicembre 2020, rimango sdraiato sul mio letto, e continuo a portare più ripetto ad un blocco di mattoni e cemento che a me stesso.
Che poi a dirla tutta non ho nulla di cui lamentarmi. Il 2021 si prospetta un anno rivoluzionario per la mia vita. Eppure questo ultimo minuto, così surreale e solitario, perfetta ciliegina in cima alla torta di merda che è stato il 2020, mi ricorda che troppo ottimismo può essere nocivo.
È la mezza notte del primo gennaio 2021, e sono a casa da solo, e penso che magari, sentire il suono secco di un tappo di sughero che schizza via da una bottiglia, potrebbe tirarmi su l’umore.
Tiro fuori dal frigo una bottiglia di spumante. Svito il filo di metallo che lo tiene chiuso, e inizio a squoterlo. Per quanto io mi impegni, il tappo non salta. Sono costretto a usare un cavatappi. Che anno di merda.
Ciao a te, o a voi del futuro.
Mi sono sempre chiesta come sarebbe stato il mondo dopo di noi, dopo di me, se i robot hanno preso il posto degli uomini, o se si è riniziato tutto da capo, come un in un loop.
Sono Inara Rattazzi, o meglio Ribero Fernandez. Ho 21 anni e sono nata in Brasile il 26 luglio a mezzanotte.
Per i primi cinque anni ho vissuto senza esserne consapevole, non sapevo che nel mondo le persone potessero lamentarsi o che fossero libere di dire la loro opinione, probabilmente mi sarebbe bastato solo gridare “AAAAAAAAAA” contro un albero spoglio e poco dopo disperso nel vento, nel silenzioso e cupo orfanotrofio. Lì sembrava di vivere in una rete da pesca in cui ogni tanto veniva prelevato qualche bambino e dato in pasto alla vita, nessuno di noi sapeva cosa c’era al di fuori di quelle quattro mura, eppure volevamo uscire, volevamo conoscere, volevamo essere considerati dei bambini come gli altri. Quindi noi eravamo pesciolini che volevamo entrare nella rete, che ossimoro vero?!
Il 17 febbraio del 2005 ho incontrato quelli che poi sarebbero diventati i miei genitori, non so dirvi che cosa ho provato e le emozioni di quel momento, ma posso dirvi che le domande senza una risposta erano tante, la paura che ti fa immobilizzare era alle stelle, ma non volevo fuggire. In quel momento per la prima volta ho fatto una scelta, per la PRIMA VOLTA POTEVO SCEGLIERE.
Uscita dall’orfanotrofio e lasciato il Brasile ho fatto una scoperta che mi ha fatto rivoluzionare il mio modo di pensare: “Ho scoperto che quando ero rinchiusa in quella scatola che era l’orfanotrofio, il mondo andava avanti e che non si fermava alla mia mera esistenza, ma anzi che migliaia, milioni, miliardi di persone avevano dei colossi da affrontare e che nel mentre che ero lì dentro, erano accadute cose, eventi, innovazioni. In quel momento ho scoperto che il tempo non si ferma, non va veloce, né lento. È sempre lo stesso. E noi abituati a ritmi frenetici non ci rendiamo conto di quanto tempo stiamo perdendo pur di raggiungerlo. Dal quel momento ho imparato come un singolo essere umano è un misero corpo di arti e muscoli e come rispetto al mondo potesse essere piccolo e insignificante eppure capace di creare, spero che voi creiate, perché se avete smesso di creare, dovreste porgervi codesta domanda: “Come siamo arrivati fin qui? Come abbiamo potuto uccidere la Creatività? il nostro essere sognatori? Il nostro guardare oltre per poter prevedere il futuro?
Scrivere significa, tra le altre cose, rendere tangibile tutto ciò che ci rimbalza in testa. È il brinamento di idee, emozioni, ricordi, pensieri; ogni cosa che non ci è possibile toccare con mano. Lo scrittore assomiglia abbastanza a un artigiano: entrambi sono in grado di riconoscere il potenziale di un materiale grezzo e sanno che, con un colpo di scalpello qua e una metafora là, possono ottenere un prodotto che sorprenda chi prima vedeva solo un ceppo di legno o un’idea astratta. In ogni caso, non sono dei maghi: le loro abilità sono il frutto dell’esperienza e della pazienza, dunque del saper accettare i propri errori e ricominciare quando necessario. È stancante non rispettare le proprie aspettative, ma è qui che l’artigiano e l’artista cercano le energie per lavorare sul prossimo progetto, consapevoli comunque che saranno più le delusioni dei successi.
Perché dedicarci tempo, allora?
Beh, ognuno trova la propria risposta. La scrittura è un percorso, come ogni altra cosa. Non si tratta solo di trovare uno stile e un metodo; scrivere è anche decidere cosa includere e cosa omettere, scegliere se indossare un alter ego o mettersi completamente a nudo, talvolta è anche scegliere una lingua. Più di ogni altra cosa però, è capire la ragione per cui si desidera farlo. Comprendere la ragione per cui ci perdiamo tanto tempo, appunto. Anche questo però non è scontato: richiede tanta onestà e tanta disponibilità ad accettare ogni parte di sé stessi. Forse non è intuitivo, ma bisogna scrivere per capire la ragione dello scrivere. Oppure è il concetto più semplice del mondo: bisogna provare una cosa per comprenderla.
Io, dopo un po’ di anni, sono giunto alle mie conclusioni.
Scrivere è per me un modo di conoscermi e comprendere i miei meccanismi; è un modo per spiegarmi a me stesso e agli altri. Io, che sono incapace di vedermi come un intero, rimando ai quaderni e ai diari il compito di raccogliermi. Nel periodo in cui gli antidepressivi e i sonniferi mi riordinavano la testa, scrivere mi ha permesso di documentare il percorso e nel frattempo non perdere niente. Quando, poco dopo, l’isolamento da lockdown ha rischiato di distaccarmi dalla realtà, la scrittura e i miei vecchi appunti mi hanno tenuto saldo al mondo reale. Scrivere diventa sempre riflesso di noi stessi, in qualche modo. L’ho potuto constatare all’inizio di quest’anno quando ho sentito parlare di afantasia e di SDAM per la prima volta: una è l’impossibilità di evocare immagini nella propria mente e l’altra indica una grave carenza di memoria autobiografica, e spesso sono due condizioni correlate. Ho ritrovato nei miei scritti queste mancanze: questo attaccamento ai ricordi che la mia testa perde e quindi affido alla carta, questo stile vicino alla saggistica che utilizza solo le immagini strettamente necessarie. Questa continua fatica a riconoscermi. Nei miei diari degli ultimi anni, mi sono riconosciuto come mai prima di allora.
Sono convinto che le persone che dedicano tempo allo scrivere e all’esprimersi tramite l’arte siano più consapevoli di loro stesse. L’espressione è forse lo strumento più utile a nostra disposizione, ma richiede parecchio impegno per essere utilizzato a dovere, soprattutto in quest’ultimo periodo. La comunicazione ci permette ancora di essere umani, sarebbe peccato lasciarla marcire.